domenica, novembre 07, 2010

"Per aspiranti scrittori": D. Tonani

Iniziamo oggi una rubrica periodica di consigli per aspiranti scrittori, raccolti sotto forma di brevi interviste a professionisti del settore. Dario Tonani, già padrino dell'edizione 2010 del nostro Premio Letterario, ha simpaticamente accettato di fare da cavia per testare questo nuovo format. Sentiti ringraziamenti! Ma passiamo senz'altro indugio all'intervista.

GdD: Sono vari i concorsi, promossi da enti locali/associazioni etc, a cui si può partecipare per fare esperienza. Quanto serve avere nel proprio curriculum piazzamenti di questo genere? In altre parole, al di là dell'esperienza che si accumula, serve mettere nel curriculum "ha vinto il Premio Narrare il Maiale di Stecconi Terme"? O conta solo piazzare un racconto su Delos/Carmilla o altre pubblicazioni web più "ufficiali"?

DT: Dipende ovviamente, non farei di tutta l’erba un fascio. I concorsi, specie all’inizio delle proprie esperienze, servono ad altro che non a fare curriculum: far circolare il proprio nome, ma direi soprattutto disciplinare la propria scrittura in vista di “prove” più impegnative come quella di proporre un manoscritto a un editore importante. Mi riferisco al cimentarsi con un tema, ad avere tempi di consegna rigidi, ad accettare senza fare drammi i riscontri di una platea più allargata come può essere quella della giuria di un concorso. Vincere un premio di cui nessuno o quasi conosce l’esistenza non ci porterà una virgola, salvo compiacere il nostro ego (se vogliamo anche questo è importante, perché aiuta a guadagnare sicurezza, ma non è certo prioritario). I concorsi dovrebbero essere presi come ghiotte occasioni di confronto con lettori fuori della cerchia ristretta delle persone che ci conoscono e che possono avere un occhio compiacente nel giudicare ciò che scriviamo. Sono una palestra, un’opportunità forse unica di misurarsi sia con un pubblico allargato di lettori sia con altri autori, che si cimentano con lo stesso nostro tema, e per giunta seguendo le medesime regole. Ecco perché consiglio caldamente di non disinteressarsi dell’esito del premio una volta conosciuto il nostro risultato: sarebbe buona norma andarsi a leggere quanti sono arrivati in finale per capire, dal confronto con loro, che cosa ha funzionato nella nostra storia e cosa no. Nel mio caso specifico, il Premio Urania (peraltro solo sfiorato con “Infect@” nel 2005) mi ha spalancato porte che mi sarebbe stato molto difficile varcare solo bussando: la richiesta di un seguito del romanzo (uscirà nel 2011), l’opzione cinematografica, un secondo libro con Urania due anni dopo la pubblicazione del primo… Anche le riviste “importanti” come appunto Robot, Delos, Carmilla sono vetrine di peso; proprio perché non si avvalgono della scrematura fisiologica di un premio, richiedono però standard di qualità già molto alti come default. E questo è una garanzia che va a tutto beneficio di chi vi viene pubblicato.


GdD: Immagino che piazzarsi in un concorso specifico (Alien/Lovecraft/...) sia la cosa più efficace in assoluto, come rapporto benefici/difficoltà, o no?

DT: I benefici sono tutti in qualche modo legati alla visibilità. Onestamente credo che a chi partecipa a un concorso importi relativamente poco dei premi in denaro, in libri o in prodotti tipici: oltretutto, nel primo caso, le cifre sono quasi sempre piuttosto modeste. Provate invece a chiedere a un autore che cosa ci sia di meglio di un serio contratto editoriale o della pubblicazione in un’opera ben distribuita. Per visibilità non intendo, ovviamente, solo tiratura di copie. Parlo di diffusione più in generale: mediatica innanzitutto. Un buon premio non si limita a far comparire il proprio bando in più location possibili, ma si assicura che si parli a lungo e diffusamente dei risultati; non cura, quindi, solo il “prima” per mietere partecipanti, ma ripaga tutti con un “dopo” altrettanto martellante (e motivante per il futuro). In questo, i concorsi con una tradizione consolidata (e magari tante edizioni alle spalle) offrono senz’altro più garanzie. Se poi hanno un piccolo ufficio stampa che sia in grado di arrivare un po’ più in là della propria homepage, tanto di guadagnato.


GdD: Per chi desidera sottoporre un lavoro ad una casa editrice: bisogna essere già noti nel settore immagino, vedi punto 1. Un nome nuovo viene considerato o finisce per essere cestinato in modo automatico?

DT: Tasto dolente. C’è una domanda di riserva? Scherzi a parte, fatta eccezione per i pezzi da novanta, il nome noto da solo non basta: occorre che sia buona e vendibile l’opera che propone. Altrimenti nisba. Ovviamente per l’esordiente assoluto le cose si complicano: da parte degli editori s’innesca una sorta di tacita “presunzione di porcheria”. O quantomeno di dilettantismo (che è forse peggio). Nessun editor di casa editrice importante ha normalmente voglia di sobbarcarsi il lavoro extra di seguire un absolute beginner seppure talentuoso. Si aspetta che il talento gli cada sulla fronte già bell’e puro. Per gli editori più piccoli, per fortuna, non è (ancora) così: il mestiere del talent scout non è morto del tutto, anzi. C’è la cosiddetta editoria “Indie” (termine mediato dalla musica, che sta per “Indipendent”), che fa di tutto per scoprire e promuovere autori e opere di qualità di cui altrimenti nessuno si accorgerebbe. Il fenomeno degli e-book ha portato in superficie questo universo, che peraltro c’è sempre stato, confinato però oltre la soglia della visibilità…


GdD: Cosa fa superare la prima occhiata e guadagnare la seconda? Il tema adeguato al mercato del momento (e.g. "vampiri")? La lunghezza "standard" quanto aiuta (rispetto ad esempio ad un tomo da 1200 pagine)? Credo che la scrittura ("l'italiano") conti tantissimo, no?

DT: Che cosa fa guadagnare una seconda occhiata? Le prime “cose” che si notano: la prima pagina, direi addirittura le prime righe. Per contro, il primo errore di grammatica o di sintassi, la prima ingenuità nella trama possono precludere l’interesse di andare avanti con la lettura… La prosa conta eccome; e se conta quella, nell’accezione di “stile”, figuriamoci l’italiano corretto. Certi errori, diciamocelo, mal dispongono chi legge. Ecco perché consiglio di spendere un bel po’ di tempo nella rilettura e nell’editing della propria opera: nessuno chiede fretta a un esordiente, per cui ci si prenda pure tutto il tempo che serve per sparare bene la propria cartuccia. Quanto a lunghezza e temi di moda, in una prima fase un autore dovrebbe avere meno condizionamenti possibili. E’ giusto che giochi le sue carte con quelle che ritiene siano le sue credenziali migliori. Solo dopo - ad approccio avvenuto – può fare valutazioni di “opportunità”.

GdD: Dario Tonani manda una cartolina a se stesso nel passato, diciamo Dario versione 1980. Che cosa scriverebbe per aiutarsi nella carriera? Tra tutti quelli che puoi far stare nel limitato spazio di una cartolina, che consiglio scriveresti per cambiare il passato e facilitarti le cose?

DT: Sei parole: “leggere, leggere, leggere. Scrivere, scrivere, scrivere”. La scrittura ha in sé qualcosa di “muscolare”, necessita dedizione, esercizio, perseveranza. E una sana alimentazione, la lettura appunto. E poi sulla cartolina aggiungerei “Mai considerare la scrittura come qualcosa solo per sé. E’ un bisogno d’accordo, ma vive di relazione con l’altro, il lettore. Senza questa relazione, la scrittura non ha ossigeno, non può crescere”. E, se potessi tornare agli anni 80, mi direi: “Scrivi meno racconti e dedicati a storie più lunghe. Per quanta visibilità possa avere un racconto, non ne avrà mai quanto un buon romanzo” Un piccolo rimpianto personale.


GdD: Altri commenti?

DT: Nessuna domanda sull’e-book? Strano di questi tempi. Peccato.

GdD: Beh, questo spazio rimane a disposizione per qualsiasi altro suggerimento ti venisse voglia di farci avere.


Questo conclude l'intervista. Ancora un caloroso saluto a Dario! Rimando al suo sito per restare aggiornati sulle sue future attività.